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Dischi '23 #4: Claudio Merico e Giulia Tripoti; Meg Baird; Sproatly Smith
Revival sefardita, psych-folk al confine col Galles e poi da Frisco
Aljama: Antichi canti del Mediterraneo — Claudio Merico, Giulia Tripoti (Karkum Project, 2022)
Vengo a sapere per vie traverse dell’interessantissimo Karkum Project, rete di produzione indipendente di stanza a Magliano Sabina incentrata sulla valorizzazione del patrimonio musicale del Mediterraneo. A fondare l’iniziativa sono Claudio Merico, suonatore di violino e cordofoni misti, e Giulia Tripoti, cantante e polistrumentista a sua volta. E i fondatori sono proprio quelli che sentiamo in questa gemmina di disco, dove troviamo ricostruito un repertorio che parte dalla penisola iberica per seguirne le migrazioni e approdare in Turchia, con un focus su quei canti sefarditi per cui ho un pallino non da oggi e che rappresentano un piccolo canone, si può dire, pan-mediterraneo (e se avete presente un po’ di storia europea dalla Reconquista in poi, non faticate a capire perché). Non mancano comunque prestiti dal codice delle Cantigas de Santa Maria (con Os que a Santa Maria e la potente A madre de Jhesu Cristo) e atmosfere più strettamente arabeggianti con canti andalusi di origine musulmana (come Twichia e la percussiva Escanciadme). Il tutto in una rassegna non solo spaziale, ma temporale, che parte da un repertorio medievale e segue, come dicono nelle rivist(acc)e rock, “l’evoluzione del genere”.
Deliziose le esecuzioni e la rassegna di strumenti, si ponga solo attenzione al fatto che il repertorio è ricostruito in modo sostanziale: a mio parere con gusto e consapevolezza, ma, dichiaratamente, non con grande rigore filologico, del che mi sembra giusto avvertire. Lascio la parola al comunicato ufficiale (che gli scrivevo meglio io per cento euri, tra parentesi) per descrivere il viaggione che vi attende qui, con doviziosa menzione dell’impressionante messe di strumenti — dalla viella all’oud, dal bendir alla rebeca — impiegata dai due. Godurioso.
River Wye Suite — Sproatly Smith (2022)
Dopo il bizzarro A Trip of Hares del '20, torna la misteriosa formazione di Ian Smith e Matt King, col suo psych-folk ardito e venato di vaga inquietudine, indissolubilmente legato al territorio dello Herefordshire, al confine col Galles. L’origine del disco è relativamenete remota, risalendo a una commissione del '14 in occasione del ripristino di una celebrazione locale sul fiume Wye, che segna il confine tra Galles e Inghilterra per un bel tratto. Il tempo trascorso, ci dice proprio Ian, ha visto una sorte grama per il fiume, gravemente inquinato dalla moltiplicazione degli allevamenti avicoli e delle coltivazioni intensive nell’area, il che ha conferito al disco un nuovo significato, non più solo celebrativo ma colmo di rimpianto per lo Herefordshire che fu.
Il risultato, lo dico subito, è una rassegna di British folk di quello buono, con tutti gli inserti indiani che ci vogliono, non attraversato dalla stessa quieta disperazione del materiale di un gruppo come i Bird in the Belly (di cui vi dissi), e più trasognato; ma segnato dal senso di vulnerabilità restituito dal fiume e dalla natura attigua, che pure si vuole, ostinatamente, celebrare di nuovo — e questo contrasto informa il non comune umore che attraversa il lavoro. Fra le tracce non posso che segnalare l’interessantissima versione acustica di The Water Is Wide (con le deliziose voci di Sarah Smith e Kate Gathercole), il dittico River Song e River Song #2 con tagliente chitarra fuzzy e un sentor di Hawkwind (un po’ pervasivo assieme al prog dei Gryphon, se non m’invento io le cose) e l’acidissima The Merry Month Of May; ma se amate come me l'Albione più ctonia e sanguinosamente gioviale (che adoro in misura pari a quanto detesto l’altra) è da sentire tutto intero. Revivalista in fondo, ma più che piacevole.
Furling — Meg Baird (Drag City Inc., 2023)
Faccio ammenda: per quel che sono durati ho disperatamente amato gli Espers di Greg Weeks, superbo gruppo di Filadelfia che seppe darmi consolazione negli anni duemila del mio esilio tante volte accennato; ma non ne ho più seguito le sorti dopo lo scioglimento, e così mi trovo ora, con mostruoso ritardo, a ricuperare quanto fatto dal loro membro storico Meg Baird, oggi residente a San Francisco, e qui al quarto disco a proprio nome.
Bene, cosa abbiamo qui? Di certo radici che affondano nell’esperienza degli Espers stessi, con la loro adorabile miscela di psichedelia e Appalachi, come dei Fairport Convention inaciditi piuttosto che come dei Trees; ma anche il compimento di un percorso personale: qui sento l’acidità calare in favore di un cantautorato più sottile ed esistenziale, una vocalità persino più interessante di allora — ricorda una Sandy Denny un po’ meno perentoria e un po’ più ruvida, se la cosa ha il minimo senso — e arrangiamenti grassi e corposi come dico io, con un intrico sonoro in lento crescendo e come lievitante che mi ricorda un po’, oso fare tanto nome!, Sua Divinità Folk Judee Sill (sebbene manchi quel suo magnetico gioco di ritmi e accenti che vabbe', era proprio una cosa unica al mondo); il tutto con in più un’attitudine shoegaze. È tanta roba, in tutti i sensi, e a rimarcare che si tratta di un pezzo di bravura è tutto eseguito da due persone: la stessa Meg e Charlie Sauflay, a chitarra (solidissima e reminiscente di Jerry Donahue, mica cotiche) e percussioni.
Lo shoegaze è lampante nell’apertura con Ashes, Ashes, mentre marcatamente dennyana (nel senso di Sandy) è la successiva Star Hill Song. Il disco è corposissimo, pieno di sorprese subliminali (il disco si apre davvero al secondo ascolto) e va giù che è un piacere; se proprio devo segnalare qualcosa passo alla melanconia di Cross Bay, l’esperismo in fingerpicking di Unnamed Drives, la Slowdive-esca Will You Follow Me Home? e la chiusura angosciosa di Wreathing Days. Come sempre le risposte alle domande sono sotto al naso, io chiedevo all’universo altri Espers ed eccoci qua. Sono tanto pirla quanto questo disco è bello, e direi che può bastare.
Questo è tutto per stavolta. Faccio solo una breve coda per sollecitarvi a condividere la newsletter e farla conoscere se vi piace; e se usate Gmail, a badare che non vi sfugga finendo nella sezione Promozioni, come credo possa saltuariamente fare. Non mi aspetto grandi numeri né, tutto sommato, ne gradisco; ma arrivare a degli appassionati — o meglio ancora, ad accendere un po’ di passione — è tra gli scopi di questa mia.
Inoltre fatemi sapere se avete suggerimenti sulla formattazione o altro: per esempio ho iniziato a mettere le copertine, come potete vedere, ma non sono del tutto convinto. Che dite?
Questo, e un annuncio: col mio progressivo abbandono dei social e la fine fisiologica di altri spazi di collaborazione, inizierò presto a scrivere d’altro: videogiochi, film, forse anche libri se trovo una formula che mi aggrada. Rimanete sintonizzati.
Dischi '23 #4: Claudio Merico e Giulia Tripoti; Meg Baird; Sproatly Smith
Mi sembra invece una descrizione efficace quella che fai dell’album della Baird, sicuramente una delle sorprese più piacevoli di questo 2023.